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di Mara Fortuna – Presidente dell’Associazione La Principessa Azzurra

Il 25 novembre 2022 si celebra in tutto il mondo, come ogni anno, la Giornata Mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne: una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999.  L’AIS Seguimi coglie questa occasione per pubblicare un interessante articolo della Presidente dell’Associazione La Principessa Azzurra, con cui l’AIS Seguimi sta collaborando a Napoli, insieme ad altri partner, per il progetto “Una luce sul futuro dei bambini”.

La giornata del 25 novembre è giornata dedicata al contrasto della violenza sulle donne. E di solito, quando si parla di violenza sulle donne, si pensa al femminicidio e allo stupro. Per il femminicidio la media in Italia, nel 2022, è una donna ogni tre giorni. Uccisa dal compagno, marito, fidanzato, per lo più ex, o in fase di separazione. La parola femminicidio, usata per la prima volta da Jane Caputi, si è poi diffusa con gli studi di Diana E.H. Russell, entrambe studiose americane. Il termine indica l’assassinio, da parte di un uomo, di una donna “perché donna”. Ma che significa “perché donna”? Significa che la donna viene uccisa per odio, disprezzo, piacere o senso di possesso e che tutte queste cose l’assassino le prova perché la vittima è donna. Anzi, l’origine di questi “sentimenti” sta proprio nel come l’assassino vede la donna, in generale. Per essere più precisi la vede come un essere forse carino, piacevole, magari perfino dotato di intelligenza, ma che deve stare al suo posto di donna: sottomessa. Non può, cioè, decidere liberamente della sua vita, figuriamoci lasciarlo, mettersi con un altro compagno o compagna. In questo caso prova odio, disprezzo, senso di possesso eccetera perché la donna non fa la donna. In altre parole una donna non può disporre del proprio corpo, cioè, in ultima analisi, di sé stessa. 
La media di un femminicidio ogni tre giorni è la stessa da decenni, da quando si è cominciato a registrare questo tipo di crimine in maniera specifica. Mentre gli assassinii della criminalità comune diminuiscono i femminicidi no. Non c’è repressione che tenga: alcuni uomini, di fronte alla autodeterminazione della compagna, l’unica reazione che riescono ad avere è ucciderla. La accoltellano, la bruciano, la ammazzano di botte, la fanno a pezzi, la gettano nella spazzatura.
E gli altri uomini? 
Di femminicidio si parla, spesso male, ma si parla. Ma siamo sicuri che la violenza sulle donne consista solo nelle botte e nel femminicidio? Certo questo è il fenomeno più evidente e odioso, ma si potrebbe pensare che riguardi solo un numero limitato di persone, assassini e vittime. Anzi, spesso si reagisce pensando che si tratta di pazzi, di persone fuori dalla norma. E questo è anche un comodo alibi. Perché i pazzi sono sempre gli altri, altro da sé. Sì, sappiamo che non c’è classe sociale o livello di istruzione che tenga: i femminicidi non sono né classisti, né razzisti. Però riguardano “pochi pazzi”.
Se vogliamo fare una riflessione per il 25 novembre, allora, dobbiamo sgomberare il campo da pensieri superficiali e semplificazioni. La violenza sulle donne ci riguarda tutte e tutti, siamo tutti coinvolti. Il perché è semplice: l’origine di questa violenza sta nella nostra mentalità, diffusa in maniera capillare, tenace, millenaria, che assegna a uomini e donne ruoli e compiti prestabiliti. E in maniera più o meno chiara, più o meno pesante, il ruolo assegnato ai maschi, tra gli altri, è quello di dominatore, alla donna quello di dominata. 
Al maschio spesso non sembra, perché, ovviamente, ciascun individuo ha le sue difficoltà nella vita e poi il potere è bello, ma ha un prezzo: all’uomo si chiede di avere successo, di non piangere, di combattere. Non sempre va tutto liscio e quindi rendersi conto del privilegio, ammettiamolo, non è facile. Anni fa introducevo l’argomento della violenza sulle donne e della parità di genere in una classe, una prima superiore. Mi guardavano tutte e tutti come fossi una marziana. “Ma ormai c’è la parità”, mi dissero, “Certo ci sono i pazzi e i malati, ma maschi e femmine sono uguali, non ci sono problemi”. Allora chiesi se a qualcuno di loro era mai capitato, salendo su un autobus, di temere di essere toccati, molestati. Gli occhi delle ragazze si illuminarono. “Forza, alzate la mano”. Io la alzai per prima, poi via via tutte le ragazze lo fecero. Nessun ragazzo alzò la mano. “Come si può parlare di parità se anche prendere un autobus per una parte comporta dei rischi e dei disagi che per l’altra parte sono inesistenti?” dissi. Da quel momento la classe si interessò alla cosa e facemmo insieme un bellissimo lavoro. 
La violenza sulle donne va dal condizionamento estetico sul corpo che arriva a far ammalare (anoressia, depressione, ecc.), alle limitazioni della vita sociale (scelta delle amicizie, attività, ecc.), alle diverse opportunità lavorative ed economiche, ai comportamenti giudicati diversamente a seconda del genere (vita sentimentale e sessuale, ecc.). Insomma botte, stalking e femminicidio sono solo la punta di un grande iceberg, come bene illustra l’immagine sulla violenza di genere elaborata da Amnesty International.
Che le cose stiano così non è affatto chiaro alla maggioranza delle persone, donne comprese. Quante donne, ad esempio, sostengono che in fondo un fischio per strada è un complimento, fa sempre piacere. Per non parlare delle donne che, parenti e madri dei colpevoli di solito, ma non solo, difendono lo/gli stupratori perché la vittima “se la è cercata”. Comprendere che nello stupro l’unica cosa in gioco è il potere, non il sesso, non il piacere, non il bisogno (questo impulso che nei maschi sarebbe irrefrenabile, soprattutto se provocato da una bella ragazza) implica, nella maggior parte dei casi, un lavoro. Un lavoro di riflessione, di vero e proprio studio. E chi non l’ha fatto inevitabilmente non ha le idee chiare. Bisogna pensare agli stupri di guerra, esercitati in ogni guerra da tutti gli eserciti del mondo, ovviamente italiani compresi, all’attuale droga dello stupro, allo stupro di gruppo, allo stupro seguito dall’assassinio e mettere insieme tutti i tasselli, tutte le tessere per avere la visione chiara. Desiderare, sentire un bisogno e non poterlo soddisfare solo perché la desiderata dice no significa riconoscerle un’identità, un’autonomia che nega le fondamenta del potere, distrugge l’asservimento e l’unico modo di ristabilire la gerarchia è, appunto, negare il valore della volontà della donna, negarne il (i) desiderio. E in gioco non è (solo) il desiderio suscitato da una persona. Si tratta di un desiderio diverso, di altra natura. Si tratta di desiderio di potere: è il potere che è attraente, non la persona. Lo stupro è questo: affermare il proprio dominio sul corpo della donna, il proprio potere attraverso il dominio sul corpo delle donne. Niente a che vedere con la biologia, con le emozioni d’amore e cose simili. Una donna sola, ad esempio, è immediatamente percepita come “debole”, “indifesa”, persona su cui è facile esercitare potere. Basti pensare che la violenza sessuale era considerata fino al 1996 reato contro la morale, non contro la persona. Cioè il reato era esporsi durante l’atto sessuale, fare qualcosa di immorale. L’uomo, il soggetto, era responsabile di offendere la morale, non la donna, che soggetto non era considerato.
Tutto questo non è scontato. E tuttavia ancora più difficile, ma certamente essenziale, è vedere la grossa massa nascosta della violenza invisibile e sottile, l’iceberg che non affiora. La violenza che si annida nella pubblicità sessista, nei programmi televisivi in cui le ragazze sono presenti solo per l’esposizione dei loro corpi, come una decorazione, nel linguaggio, costruitosi attraverso i secoli come espressione di una mentalità maschilista e patriarcale, accorgersi della colpevolizzazione che segue “naturalmente” i comportamenti indipendenti e liberi delle donne, dell’umiliazione e del ricatto emotivo così frequenti all’interno delle coppie e delle famiglie, non è facile per nessuno, nemmeno per le donne che queste violenze sottili subiscono. Ancora forte e potente è la voce del condizionamento culturale che subiamo.
E quindi il 25 novembre è data necessaria. Anche se, come l’8 marzo, finché avremo bisogno de “la giornata per” significherà che la strada da fare è ancora tanta.